La vita con un goccio di morte

Leggiamo continuamente di incidenti, di drammi, di morti illudendoci che sia pane per altri denti. Quando capita a noi siamo raggiunti da una sensazione tra l’incredulo e il malinconico. Quando hai un amico in coma, che lotta tra la vita e la morte, un vuoto allo stomaco ti prende. Hai la sensazione di aver perso tutti gli organi all’altezza della pancia. La tua prospettiva della vita sposta il suo baricentro verso “la vita è dura e brutta”. E, ingenuamente tardi, ti rendi conto di quanto possa essere doloroso e devastante perdere un amico, il tuo amico.

Così anche io ho potuto vivere in questi giorni questa esperienza. Un amico in coma.

Lo vado, quindi, a trovare in reparto rianimazione.

Intanto la preparazione: tutti con caschetti, mascherine, tuta per corpo e scarpette.

Aspettiamo in una piccola saletta dove avviene la vestizione. La stanza è fiocamente illuminata da una luce al neon affatto rilassante. Tutti in tuta, astronauti in partenza per l’ignoto o forse verso i cancelli del tempo. Una signora accanto a me è nervosa, impaurita. Rientra, turbata, un’altra che ha appena visitato un suo caro. Io le dico che generalmente i dottori, riguardo la situazione clinica, tendono a dare la versione più brutta per non creare aspettative. La signora nervosa e impaurita mi accarezza la mano e mi dice con voce tremante “Lei vuole consolarci, la ringrazio”.

E’ il mio turno. “Vai lungo il corridoio, poi a sinistra e di nuovo in fondo, lui è sulla destra”. Mi appropinquo. Ma le indicazioni mi sembrano dannatamente insufficienti. C’è solo un corridoio, eppure mi sembra di non saper dove andare. La tensione mi attanaglia sempre di più. Continuo ed entro in questo grande salone, diviso da alcune basse pareti divisorie di vetro. Pochi letti sulla destra e sulla sinistra, senza un ordine preciso. Le luci sono soffuse. Io mi guardo in giro non sapendo dove porre lo sguardo. Sono letti alti, grandi, circondati, alla testa, da un semicerchio di macchinari e fili. Mi sembra di camminare su delle molle, tutto rimbalza. Lo stomaco ce l’ho in gola.

Vedo un gruppetto di infermieri che, rilassati, parlano tra loro, evidentemente un momento di pausa. Ho passato quasi tutti i letti, non lo vedo. L’ultima parete divisoria è davanti a me, oltre la quale c’è un’ultima zona illumuminata, con macchinari e due letti, uno dei quali vuoto. Oltre questa ultima zona, la sala continuerebbe, ma c’è solo buio. Una tetra dissolvenza verso la zona morta. Dopo aver superato i cancelli del tempo, mi trovo sulla soglia del confine della vita. Tolgo subito lo sguardo da quell’orizzonte. Meglio non guardare oltre.

Vedo una persona che potrebbe essere lui. Mi avvicino. Sì, è lui. Non ha un aspetto malvagio. Dimagrito bene, rilassato, colorito, coperto dalle lenzuola sino al collo. Sembra semplicemente dormire. Il mio sguardo comincia nervosamente ad andare alle sue spalle, circondate da un muro di macchine, monitor e collegamenti alto almeno tre metri. Un anfiteatro tecnologico in cui l’attore principale al centro della scena recita la sua muta performance. Non so se toccarlo, parlargli. Ormai mi trovo in uno stato di trance assoluto.

“Non è ancora il momento. E’ ancora troppo presto, capito?” gli grido a bassa voce.

E’ ormai il momento tornare. Mentre percorro il corridoio all’inverso, mi giro per un’ultima volta e noto una luce rossa in uno dei monitor. Faccio per istinto a chiamare gli infermieri. Ma poi mi chiedo, cosa sto facendo!? E’ proprio a causa di quella lucina rossa che si trova lì.

 

(dopo circa un mese n.d.r.)

 

Lui ha visto la luce. Il nostro amico, dopo un mese e mezzo (!!!) ha visto la luce. E’ uscito dal suo tunnel buio, per vedere la via d’uscita. Per quanto mi riguarda, rimarrà un’esperienza indelebile. Una di quelle che segnano un cambiamento nella vita. Con la morte che recita la sua parte con tutta la sua forza propositiva. E il destino ci ha messo pure che veramente assomiglia a John Belushi…Penso che tornerò sull’argomento.

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