Super8 è un film triste

Attenzione: spoiler!

Super 8 è un film triste. L’aspettativa per noi “geek” anni ‘80 era molto forte. L’idea era quella di celebrare un cinema che non sarà più come prima, prodotto da una giovane generazione alla ricerca del proprio immaginario identitario. Così Abrams & Co partono con un procedimento di destrutturazione che innanzitutto identifica le particelle elementari costanti, che risultano essere le seguenti:

Corse in bicicletta (ET, Goonies, Explorers), tranquilla provincia americana (ET, Goonies, Explorers, Incontri ravvicinati), televisore come personaggio comprimario (ET, Incontri ravvicinati, Poltergeist), esercito cattivo e ingannatore (ET, Incontri ravvicinati), fasci di luce nella notte+effetti lens flare su fotogrammi (ET, incontri ravvicinati), sguardi in direzioni fuori dallo schermo (ET, Incontri ravvicinati, Poltergeist), personaggi: il grassottello, il nerd, ragazzina carina e intraprendente (Goonies, ET), personaggio brutto ma buono (ET, Goonies), giocattoli del franchising Star Wars nella stanza (Poltergeist, ET), protagonista orfano o da famiglia separata (ET, incontri ravvicinati).

Queste icone vengono prese e riesumate. Il risultato forse sembrava già in tasca, come se fosse bastato semplicemente congiungere coordinate vincenti per ottenere un prodotto vincente. Il film, così, risulta povero di storia. Perché se c’era una cosa che distingueva i nostri film erano prima di tutto le storie: piene, dense di avvenimenti, dal forte taglio adolescenziale.

Super 8 rimane un collage di flash iconografici che, da soli, non fanno scattare alcuna dinamica d’impatto emotivo. Ci ritroviamo quindi a metà film costretti ad essere spettatori di momenti di cinema che noi abbiamo vissuto realmente ma che qui sono ridotti a figurine di un album solo da sfogliare.

Il film parte con la scena di uno scontro tra un pick-up e un treno che risulta a dir poco ridicola: i vagoni volano al semplice impatto ma il pickup rimane appena ammaccato, con l’autista all’interno che riesce a salvarsi e ad allertare i ragazzi del pericolo al quale vanno incontro.

Il gruppo di giovani videomaker comincia a girare per la città e a lavorare sul cortometraggio, creando situazioni spesso divertenti, ma che non portano da nessuna parte. Le potenzialità del rapporto problematico del protagonista con il padre non vengono sfruttate, la loro rimane una situazione statica sempre sintonizzata sullo sguardo preoccupato dell’adulto e di quello intristito-malinconico del bambino.

L’attore bambino protagonista, pur essendo piuttosto bravo e riuscendo a esprimersi con scioltezza, mostra una mono-espressività da far rimpiangere non solo tutti i giovani protagonisti dei nostri vecchi film, ma soprattutto i registi che riuscivano a dirigerli.

Il rapporto conflittuale tra i 2 genitori, che aveva potenzialità fortissime (grazie anche a due attori molto dotati) si spappola miseramente in un’alleanza finalizzata solo con un passaggio in auto che sancisce la loro frettolosa riappacificazione.

E veniamo all’ alieno che, contro le sue stesse intenzioni, si presenta come mostro (una differenza notevole in un film), visto che sembra più che altro il cugino dell’alieno di Cloverfield. L’empatia che dovrebbe crearsi con i protagonisti, che come in ET, comunicano extra-sensorialmente, è solo annunciata. Infatti il rapporto uomini-alieno viene ridotto a manciate di secondi e ad un banalissimo dialogo finale (un vero e proprio monologo) del protagonista umano con il suo alter-alieno.

Finalmente arriviamo alla fine.

Anche qui si ripete il rito collettivo della partenza: il ritorno a casa di tutti alle proprie vite, rivoluzionate ma aggiustate. I mezzi militari impazziti (scena più buffa che drammatica) fanno da cornice a quella che doveva essere la catarsi finale. L’alieno “chiede” l’orologio come ricordo di un rapporto simbiotico che non c’è stato affatto. Gli sguardi dei protagonisti verso ciò che non si vedeva nello schermo, verso l’astronave che torna a casa, sono la cartolina finale dell’iconografica creata da Spielberg.

Ma piazzata lì, senza una vera e propria preparazione, ci fa tornare a casa con un grande senso di solitudine, quello della certezza che non c’è un altro Spielberg né ci sarà mai più.

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